«A volte ci si muove in un territorio vago», disse il professore. «Pieno di nebbia. Una nebbia fitta, che rende ciechi, che assorbe ogni rumore e fa perdere l’orientamento. Ecco, a Innsmouth noi ci muoviamo in quella nebbia. Non sappiamo niente di ciò che vi si nasconde dentro. Intuiamo qualcosa. E quel qualcosa intuisce a sua volta la nostra presenza.» Prese la saliera e la posizionò a capotavola. «Questi siamo noi», spiegò. «Per trovare ciò che cerchiamo dobbiamo avanzare in quella foschia.» Spostò la saliera in avanti. Poi mise un bicchiere nel centro. «Questa è Innsmouth. Quella vera. È tutto ciò che noi possiamo vedere. Ma è anche ciò che gli altri possono vedere.» Posizionò il contenitore del pepe all’altro capo della tavola. «Ecco, questi sono… loro. Noi avanziamo in mezzo alla nebbia, verso Innsmouth. Ma naturalmente così facendo potremmo finire per segnalare la nostra posizione. Allora forse sarebbe più saggio rimanere fermi.» Riportò la saliera al punto di partenza. «Ma anche questa scelta non è priva di pericoli. Rimanendo fermi saremmo un bersaglio facile da inquadrare. E allora forse sarebbero loro ad attraversare quella nebbia per raggiungerci.»
Assistetti inquieto alla marcia del pepe verso di noi.
Scese il silenzio. La superficie del tavolo sembrava veramente svaporare in una caligine indistinta. Dovetti sbattere due o tre volte le palpebre per fugare quella sensazione.
Vendute 200 copie in due settimane.
Ebbi un ripensamento. «Aspetta. Magari dovremmo prenderne uno per farlo vedere al professore.»
«Certo, come no. E quando Franco ha terminato poi lo uso come portachiavi.» Vergy estrasse il telefonino e scattò velocemente qualche foto. «Fatto», disse. «Andiamo ora.»
Una volta all’aperto, ci accorgemmo che dalla scogliera risalivano diverse di quelle creature. Per fortuna si muovevano lentamente. Se al posto dei tentacoli avessero avuto le ali Vergy e io, anziché procedere con circospezione, ci saremmo lanciati in fuga per il pianoro più veloci di un ministro dell’economia davanti alla macchina della verità.
Vergy mi rivolse uno sguardo non propriamente entusiasta. «Pensi fosse una pizzeria?» domandò.
«No. Penso di no.»
«Nemmeno io. Siamo capitati nell’immancabile chiesa. E quel forno non mi piace.»
«Pensa positivo. Magari serviva a cuocere le ostie.»
«Nel qual caso dovevano essere grandi come aquiloni. Quel forno è largo due metri e profondo almeno tre.»
«Non ricordo forni o gente bruciata viva nei racconti di Lovecraft», meditai. «Ma posso sbagliare.»
Vergy mi guardò come se avessi in testa due scolopendre impegnate in un numero di sesso orale.
«Che c’è?» chiesi, allarmato.
«C’è che stai sragionando.»
«Perché?»
«Perché non siamo in un dannato racconto di Lovecraft, cazzo. È una cosa piuttosto importante da tenere a mente.»